Ildegarda di Bingen: una visione liminale tra misticismo, sciamanesimo ed ufologia

di Antonio Marcianò  

 

L’uomo è un accampamento di demoni. (Basilide)

 

Ildegarda di Bingen o Hildegard von Bingen (Bermershein 1098, Rupetsberg, Bingen, 1179) fu una mistica tedesca. Entrò come oblata già a otto anni nel monastero benedettino di Disibodenberg dove divenne monaca e badessa nel 1136. Fin da giovanissima ebbe esperienze visionarie che, su suggerimento del monaco Volmar, mise per iscritto: queste esperienze furono ufficialmente riconosciute come un dono profetico da papa Eugenio III nel 1147. Fondò un monastero a Rupertsberg, presso Bingen, dove rimase fino alla morte.

 

Tra le sue opere, oltre all’epistolario, va ricordato lo scritto visionario “Scivias” (Conosci le vie, 1141-1153): è un libro che descrive, in uno stile drammatico, le sue visioni di Cristo. Non si tratta né di estasi né di sogni, ma di immagini interiori in cui viene mantenuta la vista sensibile e dove la “visio” è, agostinianamente, strumento di conoscenza e di comunicazione. L’opera ha un disegno sistematico che ripercorre tutta la storia della salvezza. Nel “Liber vitae meritorum” (1158-1163) l’immanenza di Dio, che anima il mondo come un fuoco eterno,  è rappresentata dalla figura di un Uomo cosmico che infonde vita all’universo. Lo stesso tema è rintracciabile nel “Liber divinorum operum” (1163-1170) in cui si ritrovano motivi cari alla scuola di Chartres: la corrispondenza tra universo (macrocosmo) e l’uomo (microcosmo), l’anima mundi, la creazione come teofania ed incarnazione delle idee eterni che albergano nella mente di Dio.

 

Ildegarda possedeva anche una vasta cultura nel campo della medicina e delle scienze naturali: sono cognizioni documentate da scritti raccolti sotto il titolo di “Physica” e “Causae et curae”. Questi testi accolgono sorprendenti intuizioni, ad esempio l’eliocentrismo e la circolazione sanguigna. Ildegarda fu anche autrice di pregevoli composizioni poetico-musicali e di un dramma morale, “Ordo virtutum”.

 

Il manoscritto di Rupertsberg mostra, tra le illustrazioni riferite alle percezioni della santa, un’insolita miniatura: vi è raffigurata una donna gravida coricata, congiunta per mezzo di un tubicino, ad una forma romboidale sospesa nel cielo. Ai lati della donna sono rappresentati degli uomini inscritti in un ovale: alcuni di loro reggono delle ceste contenenti (all’apparenza) della frutta o dei pani. In alto nella parte sinistra della composizione un folletto preleva un fungo da una canestra. Nella miniatura il firmamento è trapunto di stelle, mentre il quadrilatero è cosparso di cerchi e di “occhi”. In una banda centrale del poligono si nota una forma di non facile identificazione: un volto? un altro fungo?  Se consideriamo le convenzioni iconografiche dell’arte medievale, osserviamo che il rombo, secondo la prospettiva policentrica, è probabilmente visto dal basso: gli inquietanti “occhi” dunque fissano dall’alto la donna incinta, come ad ipnotizzarla, mentre i giovani, con contegno improntato a devozione, sembrano voler offrire le primizie.  

 

Nella composizione le figure geometriche assumono notevole rilevanza: il rombo occupa il settore superiore del “quadro”, mentre la “mandorla” non solo include le figure, ma la sua curva, nella parte più bassa, coincide con il profilo inarcato della donna pregna.

 

E’ un soggetto davvero singolare, per certi versi incongruo, con l’elfo che piglia il fungo, il tubicino che, dipartendosi dalla figura muliebre, si allunga sino al rombo. In particolare, il fungo pare un richiamo ai vissuti sciamanici. E’ noto che, sin dalla preistoria, i medicine men erano usi assumere sostanze psicotrope estratte da funghi, quali l’Amanita muscaria (genere Psylocibe): le sostanze psicoattive propiziavano la trance, il viaggio nei regni invisibili. La miniatura inscena dunque una visione sciamanica? [1]

 

In che misura, invece, la donna, il cannello e la losanga possono aderire ad uno scenario ufologico classico, addirittura ad un resoconto di inseminazione per opera di esseri “alieni”? Se rintracciare dei tòpoi ufologici all’interno dell’icona può apparire arbitrario o persino destituito di fondamento, saremmo comunque inclini a scorgere nella descrizione uno sguardo gettato in una dimensione enigmatica, forse al confine tra celeste e demoniaco. E’ un bivio preternaturale in cui influssi e presenze eterogenee si incontrano e si sovrappongono, come la parte comune di due cerchi intersecati?

 

E’ probabile che l’immagine in esame sia il riflesso di una complessa visione simbolico-liminale e non lo spaccato iconografico di un fatto. Invero le figure sembrano disegnare una sorta di albero cosmico che nasce dalla Madre-Terra. Non solo, il cordoncino ricorda il filo d’argento che, durante i cosiddetti viaggi astrali, lega il secondo soma all’involucro materiale.

 

Tuttavia il crudo realismo di certi particolari e le analogie con quanto riportato da donne vittime di rapimenti sono aspetti che è legittimo pure ricondurre ad un ambito ufologico. Tale esegesi è per lo meno legittima nel caso di una visione di cui si dà conto in “Scivias”. La religiosa la riferisce nel modo seguente: “Vidi una struttura gigantesca e scura simile ad un uovo… Lo strato esterno era interamente costituito da un fuoco scintillante e nella parte inferiore giaceva qualcosa di simile ad una membrana scura… La vampa lo scuoteva con un fragore simile al tuono, con una bufera ed una grandine di sassi appuntiti, grandi e piccoli”.

 

Questa ed altre percezioni della badessa vissuta nel XII secolo, sono state esaminate da G. Bonn, nel saggio “Le visioni di Ildegarda di Bingen: un parallelo tra documenti antichi e moderni”. Lo studioso le interpreta secondo i criteri della Clipeologia, concludendo che la mistica vide degli U.F.O. Si può in linea di massima concordare, purché l’ipotesi xenologica resti tale e non escluda altri orizzonti: la simbologia, le esperienze mistiche, il contatto con sfere incorporee.

 

Resta comunque il sentore che alcune circostanze descritte dalla santa tedesca siano indizi di un’interferenza “esterna”, come se, attraverso un varco in una realtà metafisica, fosse penetrata qualche entità larvale. Sono proprio questi esseri sinistri, questi parassiti psichici che oggi giorno quasi sempre si appiccicano a coloro che, credendo di maturare esperienze spirituali, si invischiano in situazioni di cieco, pecioso psichismo.

 

 

[1] Il fungo delineato non assomiglia all’Amanita muscaria o ad altre specie delle Amanitacee, ma a quei miceti dal cappello ad imbuto, ascritti alle Russulacee o alle Cantarellacee. E’, però, l’Amanita muscaria il fungo che, per le sue proprietà allucinogene, è conosciuto ed impiegato sin dalla preistoria. L’Amanita muscaria è un fungo appariscente e piuttosto diffuso nei boschi di Conifere e Latifoglie. Compare spesso nelle illustrazioni dei libri di fiabe e nei cartoncini d’auguri. Negli esemplari giovani, l’intero corpo fruttifero è coperto da un velo bianco, i cui residui a forma di verruche (che col tempo possono scomparire) adornano il cappello rosso vermiglio, solcato al margine. Le lamelle sono bianche, l’anello è pendulo e solcato. Il gambo è ingrossato alla base con cerchi concentrici di verruche. Gli occhi ed i circoli della losanga, se non si vuole pensare agli oblò di un’astronave, ricordano le verruche del fungo: l’artista tratteggiò forse una gigantesca Amanita? Più si analizza l’immagine e più essa appare contraddittoria, indecifrabile 

                                                                                                                           

 

Fonti:

 

Enciclopedia del Medioevo, Milano, 2007, s.v. Ildegarda di Bingen

G. Hancock, Sciamani, Milano, 2006, passim

P. Harding, Funghi commestibili e velenosi, Milano, 2003, s.v. Amanita muscaria

G. Ranella, Le dimensioni parallele, 2012

G. Samorini, Sciamanismo, funghi psicotropi e stati alterati di coscienza: un rapporto da chiarire, articolo presente in Bollettino camuno di studi preistorici, vol. 25/26, pp. 147-150, 1990

E. Von Danichen (a cura di), I misteri dell’archeologia: alla ricerca di tracce cosmiche sul nostro pianeta, Roma, 2005, pp. 208-216

 

 

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