I prodigi di Giuseppe Flavio

 

di Antonio Marcianò

 

 

 

 

Giuseppe Flavio (Gerusalemme, 37 o 38 d.C., Roma dopo il 103 d.C.) è il noto storico ebreo. Di ricca famiglia sacerdotale, partecipò alla guerra giudaica e, nel 67 fu catturato da Vespasiano che lo trattò benignamente per poi liberarlo. Per riconoscenza, Giuseppe assunse il soprannome di Flavio. In Palestina con Tito fu testimone della presa di Gerusalemme. Accompagnò poi Tito nell’Urbe dove visse per il resto della sua vita. Giuseppe Flavio si prefisse con le sue opere di promuovere nel mondo ellenistico e romano la conoscenza della realtà ebraica. Scrisse la “Guerra giudaica” in sette libri prima in aramaico poi in greco, mettendo a frutto la sua cognizione diretta dei fatti. Di più largo respiro sono le “Antichità giudaiche” in venti libri, in greco, in cui è ripercorsa la storia dei Giudei dalle origini ai tempi della rivolta, attingendo a fonti ormai scomparse. Nei due libri “Contro Apione”, un grammatico alessandrino che si era pronunciato contro gli Ebrei, riprese i motivi tradizionali dell’apologetica giudaica sull’antichità e la superiorità degli Ebrei rispetto ai Greci. Nell’”Autobiografia” integrò alcune parti delle “Antichità”.

 

Lo storico, nel VI libro della “Guerra giudaica”, nel corso della narrazione degli eventi, che si snodano dal dal 60 al 70 d.C., indugia su alcuni episodi sbalorditivi occorsi prima del conflitto conclusosi con l’espugnazione di Gerusalemme per opera dei Romani. La morsa attorno al tempio di Salomone ed agli edifici circostanti, in cui resistono i combattenti messianisti, si stringe sempre più. La situazione per gli assediati è ormai disperata: le legioni di Tito attaccano in massa, scorrono fiumi di sangue, i cadaveri dei ribelli si ammucchiano nelle strade, mentre le fiamme avvolgono il santuario.

 

Giuseppe Flavio attribuisce la débâcle dei ribelli al loro fanatismo ed alla sprovvedutezza nonché alla predicazione di profeti mendaci. Secondo l’autore, i suoi correligionari avevano ignorato o interpretato in maniera distorta alcuni prodigi che avrebbero dovuto stornarli dal prendere le armi contro i Romani.

 

“A causare la loro morte fu un falso profeta che in quel giorno aveva proclamato agli abitanti della città che il Dio comandava loro di salire al tempio per ricevere i segni della salvezza. E in verità allora, istigati dai capi ribelli, si aggiravano tra il popolo numerosi profeti che andavano predicando di aspettare l'aiuto del Dio e ciò per distogliere la gente dalla diserzione e per infondere coraggio a chi non aveva nulla da temere da loro e sfuggiva al loro controllo. Nella disgrazia l'uomo è pronto a credere e, quando l'ingannatore fa intravedere la fine dei mali incombenti, allora il misero s'abbandona tutto alla speranza. Così il popolo fu allora abbindolato da ciarlatani e da falsi profeti, senza più badare né prestar fede ai segni manifesti che preannunziavano l'imminente rovina.

 

Quasi fossero stati frastornati dal tuono ed accecati negli occhi e nella mente, non compresero gli ammonimenti del Dio, come quando sulla città apparvero un astro a forma di spada ed una cometa che durò un anno o come quando, prima che scoppiassero la ribellione e la guerra, essendosi il popolo radunato per a festa degli Azzimi nell'ottavo giorno del mese di Xanthico, all'ora nona della notte l'altare e il tempio furono circonfusi da un tale splendore che sembrava di essere in pieno giorno ed il fenomeno durò per mezz'ora. Agli inesperti sembrò di buon augurio, ma dai sacri scribi fu subito interpretato in conformità di ciò che accadde dopo.

 

Durante la stessa festa, una mucca, che un tale menava al sacrificio, partorì un agnello in mezzo al sacro recinto; inoltre la porta orientale del tempio, quella che era di bronzo e assai massiccia, sì che la sera a fatica venti uomini riuscivano a chiuderla e veniva sprangata con sbarre legate in ferro e aveva dei paletti che si conficcavano assai profondamente nella soglia costituita da un blocco tutto d'un pezzo, all'ora sesta della notte fu vista aprirsi da sola. Le guardie del santuario corsero a informare il comandante che salì al tempio e a stento riuscì a farla richiudere. Ancora una volta questo parve agli ignari un sicurissimo segno di buon augurio, come se il Dio avesse spalancato a loro la porta delle sue grazie; ma gli intenditori compresero che la sicurezza del santuario era finita di per sé e che l'aprirsi della porta rappresentava un dono per i nemici e pertanto interpretarono in cuor loro il prodigio come preannunzio di rovina.

 

Non molti giorni dopo la festa, il ventuno del mese di Artemisio, apparve una visione miracolosa cui si stenterebbe a prestar fede; e in realtà, io credo che ciò che sto per raccontare potrebbe apparire una fola, se non avesse dauna parte il sostegno dei testimoni oculari, dall'altra la conferma delle sventure che seguirono.

 

Prima che il sole tramontasse, si videro in cielo su tutta la regione carri da guerra eschiere di armati che sbucavano dalle nuvole e circondavano le città. Inoltre, alla festa che si chiama la Pentecoste, i sacerdoti che erano entrati di notte nel tempio interno per celebrarvi i soliti riti riferirono di aver prima sentito una scossa e un colpo e poi un insieme di voci che dicevano: “Da questo luogo noi andiamo via”.

 

L’ampio stralcio riportato sciorina alcuni portenti che sono non di rado descritti dagli scrittori antichi: alcuni fatti meravigliosi, che attrassero l’attenzione di Giuseppe Flavio, ricordano analoghi fenomeni raffigurati da Livio, Plinio il Vecchio, Seneca, Giulio Ossequente, Ammiano Marcellino…  solo per citare autori latini.  Bisogna chiedersi se lo storico ebreo sia fededegno: anche se egli mirò ad ingraziarsi i Flavi, da cui era stato beneficato, non rinunciando ad una coloritura polemica, allorquando vuole mettere in cattiva luce i nazionalisti ebrei, non si può concludere che Giuseppe Flavio fu testimone e cronista inattendibile. Le sue opere, alcune scritte a ridosso degli eventi narrati, paiono piuttosto scrupolose e, nei limiti delle esigenze narrative ed ideologiche, spassionate. [1]

 

Vediamo quali sono i mirabilia su cui si sofferma Giuseppe Flavio per compierne poi una scorsa.

 

-        Un astro a forma di spada ed una cometa che durò un anno, apparsi nel cielo di Sion 

-        Uno splendore che circonda il tempio

-        Una mucca che dà alla luce un agnello

-        La pesante porta orientale del tempio che si apre da sola

-        Carri da guerra e schiere di armati che, sbucando dalle nubi, attorniavano Sion

-        Una scossa ed un colpo, quindi un insieme di voci che annunciarono: “Da questo luogo noi andiamo via”

 

La stella a forma di spada, insieme con la cometa che fu vista per un intero anno, potrebbero essere corpi celesti. E’ plausibile che la cometa fu un fenomeno naturale, mentre l’astro simile ad un gladio potrebbe essere ricondotto ad un U.F.O.

 

Il fulgore che attornia il tempio forse provenne da una sorgente nel cielo, ma è assai arduo pronunciarsi sulla sua origine e natura.

 

La mucca che partorisce un agnello è un prodigio che ricorda analoghi monstra, segnalati soprattutto da Livio nell’”Ab Urbe condita libri”, come la porta del tempio che si apre da sola.

 

I carri e le schiere di armigeri in cielo sono le tipiche rappresentazioni, sia letterarie sia iconografiche, di presunti ordigni non identificati. In numerose altre fonti antiche e medievali, con l’espressione “carro di fuoco” si indicano mirabolanti veicoli che furono scorti incrociare nel cielo.

 

La scossa ed il colpo (un boato?) precedono la conturbante frase: “Da questo luogo noi andiamo via”. La vibrazione ed il colpo furono causati dal repentino spostamento di un grosso mezzo aereo?

 

L’interpretazione clipeologica di alcuni portenti è probabilmente grossolana, anche se ancorata alla lettera del testo ed all’inevitabile tendenza degli uomini dei secoli passati a tradurre, per mezzo di un vocabolario aderente al loro immaginario ed alla loro cultura, “cose” straordinarie. Così la percezione di presunti strumenti tecnologici fu forse resa tramite designazioni tratte dal linguaggio dell’astronomia (la cometa), della vita quotidiana, della guerra (carri, le schiere di soldati) etc. 

 

Non si può escludere, però, che siamo al cospetto di spettacoli e circostanze preternaturali, a tracce di un’irruzione nel mondo sublunare per opera di presenze “altre”, rappresentate attraverso le risorse lessicali cui si è accennato sopra.

 

La voce di commiato rammenta, mutatis mutandis, l’enigmatico accento che, secondo Plutarco, echeggiò durante il regno di Augusto, quando un navigatore udì sul mare: “Il grande dio Pan è morto”. Il grido, segno del tramonto di un’era e di una civiltà, si confonde con il congedo che ignote entità presero da Gerusalemme.

 

Allora gli déi (o gli “déi”?) si allontanarono dalla Terra e dai suoi abitanti. Definitivamente?

 

[1] Giuseppe Flavio fu un ebreo osservante della Torah, vicino al movimento dei Farisei ed ostile ai gruppi sciovinisti (Zeloti e Sicari). Durante la prima guerra giudaica (66 d.C.) ricoprì la carica di governatore militare della Galilea. Quando i rivoltosi compresero che erano perduti, si uccisero in massa. Giuseppe riuscì a rimanere vivo e si consegnò ai Romani. Si incontrò con Tito Flavio Vespasiano, allora generale, cui predisse che sarebbe diventato imperatore: Vespasiano, destinato veramente a diventare principe, gli risparmiò la vita e Giuseppe si legò alla Gens Flavia.

 

 

Fonti:

 

M. Biglino, Il Dio alieno della Bibbia, 2011, p. 224  

Enciclopedia dell’antichità classica, Milano, 2005, s.v. Giuseppe Flavio, Pan